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Economia

Cresce l’attenzione alla Corporate Social Responsibility

Cos’è la Corporate Social Responsibility? È l’attenzione che le aziende dedicano alla condotta etica e al loro impatto sociale. In Italia sono il 48% le persone che dichiarano di esserne a conoscenza, contro il 40% di chi non ne conosce il significato. I dati italiani sono in linea con il risultato a livello globale, che cresce all’aumentare dell’età al livello di istruzione. Si tratta di un’evidenza della survey sulla Corporate Social Responsibility di WIN International, di cui fa parte BVA Doxa, che conferma come i risultati italiani siano in linea anche con la media Europea (48%). A guidare il ranking dei paesi Europei c’è la Slovenia, che con il 74% di ‘conoscitori’ è anche al primo posto del ranking globale. Mentre in paesi come Francia (43%), Germania (31%) e Regno Unito (40%) una quota minore di intervistati si dichiara vicino al concetto della CSR.

Adottare e promuovere la CSR

In Italia, il 25% degli intervistati afferma che la maggior parte delle aziende non ponga la giusta attenzione alla CRS, un dato di nuovo in linea con la media mondiale (25%).
C’è anche una quota della popolazione che ritiene che le aziende si occupino di CSR solo ‘per apparenza’, ma che in realtà non siano sufficientemente impegnate nel promuoverla. In questo caso, la differenza tra Italia e resto del mondo è più significativa: il 50% degli italiani ne è convinto contro il 39% della media mondiale.
Il dato italiano però è ancora una volta in linea con il resto dell’Europa (48%). Solo il 9% degli italiani ritiene che le aziende stiano efficacemente adottando la CSR, diversamente da quanto pensano i cittadini in APAC, tra i più ottimisti del campione (media della regione 31%).

Conoscere le azioni di aziende e brand 

Il 70% della popolazione mondiale ritiene sia importante essere a conoscenza dei comportamenti socialmente responsabili delle aziende e dei brand di cui si è clienti. In Italia non solo il dato è significativamente più alto (88%), ma il risultato porta l’Italia al terzo posto nel ranking mondiale dei paesi che ritengono sia importante conoscere le azioni che aziende e brand intraprendono a favore della sostenibilità. Non si tratta però solamente di essere consapevoli del significato e dell’importanza della CSR, ma dalla rilevazione emerge anche come sia in grado di influenzare le decisioni di acquisto della popolazione mondiale.

L’influenza sulle decisioni d’acquisto

Il 62% della popolazione afferma infatti che i comportamenti socialmente responsabili di aziende e brand influenzano le loro decisioni di acquisto, e in Italia sono il 67%. Aumenta quindi l’interesse per i comportamenti etici e la funzione sociale delle aziende. A livello mondiale, se da un lato i risultati mostrano una equa distribuzione tra regioni e gender, una relazione indiretta appare guardando all’età: le persone più anziane tendono a essere meno influenzate dalla CSR e dai comportamenti etici delle aziende nelle decisioni d’acquisto.

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Cybersecurity, un settore alla ricerca di professionisti

Se i criminali informatici continuano ad adattarsi per sfruttare al meglio un fronte di attacco in costante evoluzione, secondo il Data breach investigation report 2021 di Verizon il settore della Cybercsecurity deve affrontare anche il problema della reperibilità di profili professisonali specializzati.

“I professionisti della sicurezza informatica sono molto richiesti, ma scarseggiano e questa mancanza di risorse influisce sul modo in cui possiamo rispondere e mitigare gli attacchi – spiega Nasrin Rezai, senior vice president e chief information security officer di Verizon”. Il Cybersecurity workforce study (Isc) indica infatti che la carenza di talenti nel settore della sicurezza informatica globale riguarda oltre 4 milioni di persone.
“È dunque arrivato il momento di ricordare l’importanza di implementare norme di sicurezza informatica – sottolinea Rezai – e di risolvere la carenza di talenti che affligge questo settore”.

“Affrontare il problema ricalibrando i requisiti richiesti”

“Un modo per affrontare il problema è allargare e ricalibrare i requisiti quando si tratta di assumere risorse, e implementare programmi di apprendistato e formazione per chi non ha intrapreso un tradizionale percorso di studi in ambito tecnologico – suggerisce Rezai -. Sebbene molti problemi di sicurezza possano essere mitigati dall’intelligenza artificiale e dal machine learning, molte attività possono essere risolte solo dalle persone. I giovani cyber defender, che lavorano al fianco di veterani esperti, possono portare una nuova prospettiva mentre ricevono una preziosa formazione sul lavoro”.

“Dare priorità all’esperienza pratica rispetto ai diplomi”

Dare priorità all’esperienza pratica rispetto ai diplomi “è un altro modo per attrarre candidati validi – sottolinea Rezai -. Curiosità, capacità di risolvere problemi e pensare fuori dagli schemi sono abilità di cui bisogna tenere conto durante l’analisi dei curriculum”.
Ma sono tre, secondo Rezai, “le cose da fare per far crescere il numero dei talenti in questo settore”. Innanzitutto, ripensare la strategia di assunzione: in pochi hanno iniziato un percorso formativo pensando di voler diventare un cybersecurity expert. “Sebbene molte università abbiano cominciato a offrire lauree e certificazioni nell’ambito della sicurezza IT, il settore è ancora relativamente nuovo e il numero delle risorse è ancora limitato – continua Rezai -. Per ampliarlo bisogna utilizzare un linguaggio nuovo”. E tenere in considerazione che anche i candidati con esperienza fuori dal campo tecnologico possono fornire nuove prospettive e idee innovative.

“Occorre fare di più in termini di diversity”

Occorre poi fare di più in termini di diversity. “Il divario di genere in ambito stem inizia molto presto e per questo perdiamo decine di potenziali cyber-defender donne, perché le ragazze non sono incoraggiate a scegliere programmi o attività tecnologiche. Un divario simile esiste anche per le minoranze più svantaggiate”, afferma ancora Rezai.
La terza ‘cosa da fare’ è offrire formazione sul posto di lavoro. Il miglioramento delle competenze e la riqualificazione sono infatti la chiave per colmare il divario di digital skill e di opportunità per i lavoratori che non hanno competenze tecniche o una laurea quadriennale.

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Bilancio positivo per l’agroalimentare. Un settore che sa fare sistema


Nonostante la pandemia, il settore agroalimentare italiano segna buoni risultati, anche grazie alla spinta di oltre 55.000 nuove aziende guidate da under 35, caratterizzate dalla propensione all’innovazione.Il primo appuntamento con gli Stati Generali sul mondo del lavoro di Agrifood fa emergere anche la capacità del settore di fare sistema, nel rispetto delle differenze e delle tipicità che caratterizzano il nostro paese. Altrettanto chiare però le criticità del settore, come costo del lavoro, burocrazia per l’impiego, e assenza di manodopera. Non ultima area di rischio, la tendenza comunitaria all’omologazione, direzione opposta rispetto alle tipicità che fanno dell’agroalimentare italiano un’eccellenza mondiale. L’auspicio comune è quindi quello di ottenere, nell’ambito della distribuzione dei fondi previsti dall’Europa e dal PNRR, la giusta attenzione al settore, soprattutto nella direzione della sostenibilità e della digitalizzazione.

Un settore che da contadino è diventato imprenditoriale

“Forse per qualcuno è inatteso, ma lo scenario dell’agroalimentare italiano è molto positivo: i fondamentali sono robusti, pur nella vasta articolazione di modelli, competenze e specializzazioni che costituiscono la nostra ricchezza – spiega Lucio Fumagalli, presidente INSOR Istituto Nazionale di Sociologia Rurale -. Qui l’Italia sa fare sistema: dalla cultura del seme fino agli aspetti distributivi o di packaging, il settore dimostra la capacità di interconnettere le filiere”. Quanto al contributo dei giovani imprenditori alla ‘demarginalizzazione’ culturale dell’agroalimentare, attraverso le competenze apprese negli studi e applicate nell’attività aziendale i giovani hanno dato nuova dignità a un settore che da contadino è diventato a pieno diritto imprenditoriale.

Ma il costo del lavoro è troppo alto

Il settore agroalimentare ha continuato a lavorare durante i lockdown consentendo l’approvvigionamento, mantenendo i livelli occupazionali e utilizzando molto poco gli ammortizzatori sociali.
“Ma è comunque nel lavoro il nodo da superare – afferma Luca Brondelli, membro della giunta esecutiva di Confagricoltura -. Il costo del lavoro è troppo alto in termini economici e di fatica burocratica. I centri per l’impiego non funzionano, le regole sono sempre più complesse e macchinose, la stessa legge sul caporalato prevede sanzioni pesanti alla minima svista. Inoltre, la pandemia ha ridotto l’accesso di lavoratori stranieri e il reddito di cittadinanza ha tagliato le gambe all’offerta di manodopera italiana”.

“Dobbiamo lavorare per la sostenibilità delle nostre eccellenze”

Secondo Fabiano Porcu, direttore Coldiretti Cuneo, “l’omologazione è il vero nemico delle nostre eccellenze che trovano origine proprio nelle tipicità. In rapporto alla Francia siamo a 1.500 tipologie di nostri vini contro 150 delle loro –  aggiunge Porcu -. Dobbiamo lavorare per la sostenibilità delle nostre eccellenze. Ma occorre anche un po’ di reciprocità. Se la produzione agroalimentare in Italia è sottoposta a regole stringenti, come è giusto che sia, così deve essere anche negli altri Paesi dell’Unione Europea. Altrimenti avremo tanti altri casi Prosek. L’italian sounding – sostiene Porcu – è uno dei problemi. Il nostro export vale 52 miliardi di euro a fronte di 100 miliardi in prodotti che sembrano/suonano italiani, ma non lo sono”.

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Gli italiani e il Phygital, la nuova prospettiva del retail

Gli italiani rivedono il proprio rapporto con lo shopping, guardando sempre più al phygital, l’esperienza di acquisto ibrida che coniuga le modalità tradizionali dell’offline con le novità portate dall’online e dal digitale.Se da un lato è stata sofferta la mancanza dell’aspetto più sociale dello shopping il canale digitale è riuscito a fare fronte ai bisogni dei consumatori, portando novità e servizi ormai irrinunciabili. Quanto al futuro, ci sono ampi margini di miglioramento, soprattutto se le esperienze phygital sapranno diventare sempre più emozionanti. È quanto emerge da ‘Phygital Shopping Experience: opportunità per i retailers per incrementare loyalty e sales’, la ricerca in ambito retail di BVA Doxa in collaborazione con Salesforce sulle esperienze di acquisto phygital.

Quando canale fisico e digitale si intersecano

Molti, infatti, sono gli esempi in cui canale fisico e digitale sono andati intersecandosi, come, ad esempio, con la prenotazione o l’acquisto del prodotto online e il successivo ritiro in negozio o la consegna a casa. In diversi casi, inoltre, sono stati i negozianti stessi, non presenti online, a trovare soluzioni e proporre servizi che permettessero di interagire con il proprio negozio, mantenendo il contatto con la propria clientela. Queste, così come la possibilità di prenotare il proprio posto in coda o l’aumento dei sistemi di pagamento digitali e contactless, sono state accolte positivamente, tanto da desiderare che vengano mantenute anche in prospettiva. Nell’ultimo anno oltre tre italiani su quattro (74%) hanno fatto acquisti con modalità phygital. In particolare, per l’abbigliamento (28%), l’elettronica (24%) e il comparto del beauty (21%).

Obiettivo omnicanalità

Tra gli store fisici, i supermercati e i negozi di abbigliamento sono le categorie dove con maggiore frequenza si adottano le modalità phygital. Ma se in tanti settori il phygital si sta ritagliando uno spazio sempre più importante, allo stato attuale i percorsi per rendere ottimale l’esperienza del cliente vanno ancora perfezionati. Deve infatti ancora concretizzarsi una reale omnicanalità tra offline e online, dal momento che ancora il 22% di chi visita il negozio compra online altrove, magari attratto da offerte più convenienti trovate in rete.

Personale di vendita “reale” o assistenti virtuali?

In questo processo di ibridazione, i consumatori italiani si dividono sull’affiancamento di assistenti virtuali al personale di vendita ‘reale’. Il personale di vendita reale è centrale a patto però che costituisca un valore aggiunto soprattutto in termini di competenza. È comunque consistente (52%) la quota di chi vede positivamente l’affiancamento di assistenti virtuali, e a essere più favorevoli sono soprattutto i giovani uomini, mentre decisamente meno le donne. In ogni caso, se gli strumenti digital permettessero al personale di vendita di identificare i clienti e conoscerne le preferenze, i consumatori italiani si direbbero felici, soprattutto perché potrebbero ottenere consigli su prodotti e servizi specifici (48%). Tuttavia, resta ancora centrale il nodo della privacy: il 59% è preoccupato per la salvaguardia dei propri dati sensibili.

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L’innovazione passa anche dalla Pec: la digitalizzazione delle Pmi italiane

Anche le piccole e medie aziende hanno voglia di innovazione tecnologica, tanto che il 60% di quelle italiane è attenta verso questa tematica. Lo afferma una recentissima analisi condotta da Aruba, il principale cloud provider italiano, e Idc, società mondiale specializzata in market intelligence, servizi di advisory e organizzazione di eventi nell’ambito digitale e Ict, che ha voluto esplorare il “livello di digitalizzazione raggiunto dalle piccole e medie imprese italiane e comprendere come uno tra gli strumenti cardine della digital transformation, ossia la Pec, le stia supportando in questo percorso”.

Il 71.6% delle imprese fino a 20 dipendenti è attenta all’innovazione

Qualche dato particolarmente interessante che fa emergere la dinamicità anche in ambito digital delle piccole imprese: il 60,5% delle Pmi da 1 a 5 addetti, infatti, si dichiara attenta verso l’innovazione. L’indagine rivela una particolare attenzione soprattutto all’interno delle Pmi più strutturate, che contano cioè tra 6 e 20 addetti, che si dicono “molto attente” sul tema nel 71.6% dei casi. Dallo studio – che mostra l’evoluzione delle Pmi e la crescita di digitalizzazione grazie alla Pec, laPosta Elettronica Certificata – emergono inoltre altri dati positivi: il 60% delle aziende coinvolte si adatta con rapidità a nuovi modi di lavoro basati sul digitale ed il 75% si focalizza sulla ricerca di nuove soluzioni per migliorare il proprio lavoro quotidiano. 

Il cambiamento non fa più paura

Un altro elemento chiave evidenziato dalla ricerca, che ha coinvolto un campione di 300 piccole e medie imprese nei diversi comparti – industria, commercio, finanza, servizi professionali, servizi alle persone e Pubblica Amministrazione locale, è che il cambiamento non fa paura. Un’ottima notizia, considerato che le Pmi nel nostro paese sono circa 200.000, come certificano i dati Istat. “Il cambiamento non fa più paura come prima: quasi l’85% del mercato preso in esame nella survey esprime una sostanziale apertura rispetto al tema dell’innovazione” afferma Gabriele Sposato, Direttore Marketing di Aruba. “La repentina necessità di digitalizzazione dovuta all’emergenza sanitaria ha fatto crescere tra le Pmi la consapevolezza legata all’importanza di strumenti innovativi per affrontare il proprio lavoro ed è solo il 15% ad esprimere qualche riserva al cambiamento, ancora prima cha all’innovazione”.

L’utilizzo della Pec

In dettaglio, la Pec è stata ritenuta importante per la digitalizzazione della propria impresa da oltre l’80% degli intervistati. Non solo, l’indagine ha evidenziato come il 98,5% delle aziende usa la Pec in modo continuativo, con una interessante frequenza di utilizzo: l’82% ne fa uso almeno una volta alla settimana. Le aziende che appartengono ai settori finanza, Pubblica Amministrazione locale e commercio sono quelle che dichiarano un utilizzo più frequente; al contrario, industria e servizi (professionali e alla persona) sono i settori con una frequenza di utilizzo leggermente inferiore.

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Economia

Superbonus 110%, gli interventi vanno a rilento. Ecco perché e le possibili soluzioni

A poco più di un anno dalla sua introduzione, il Superbonus 110% sembra mostrare segni di disamoramento da parte dei cittadini. Eppure l’incentivo che agevola gli interventi di efficientamento energetico e sismico per le abitazioni degli italiani è un’iniziativa assolutamente lodevole e vantaggiosa per tutti. Però, nonostante la bontà del bonus, appare evidente che esistano delle criticità, ben rilevate da 110%Monitor – il nuovo Osservatorio Nomisma sulle operazioni di riqualificazione energetica e sismica soggette al Superbonus – che fornisce aggiornamenti trimestrali sull’andamento di questa iniziativa. Come spiega una nota, “Nomisma sostiene fortemente il Superbonus 110%, tuttavia ritiene che vadano corretti alcuni passaggi per renderlo realmente efficiente. Attualmente, infatti, gli interventi asseverati stanno crescendo più lentamente rispetto alle aspettative, emerge un senso di rassegnazione da parte delle famiglie a fronte delle incertezze normative, e i condomìni – i principali destinatari di questa iniziativa – hanno delle difficoltà ad attivarsi”.

Cosa c’è che non va

Le principali problematiche sono rappresentate dall’incertezza sulle decisioni normative e l’inadeguatezza delle informazioni a disposizione degli operatori. Ulteriori criticità sono, inoltre, le difficoltà riscontrate dalle imprese a causa dell’aumento dei prezzi e dal fatto che anche abusi di minima entità possono impedire l’avvio delle operazioni. Per queste ragioni, si è registrato un calo del numero di famiglie potenzialmente interessate all’iniziativa, passate dai 10,5 milioni di maggio 2020 ai 9 milioni di giugno 2021. Resta poi il nodo della territorialità: gli interventi si concentrano in alcune  Regioni più pronte, come Lombardia, Veneto, Lazio ed Emilia-Romagna, con il rischio di penalizzare territori meno equipaggiati come, ad esempio, Molise, Basilicata, Umbria e Abruzzo. Restando in tema di disparità, inoltre, la misura rischia di “regalare valore immobiliare a chi ce l’ha già e offrire opportunità solo a chi risulta essere già più equipaggiato”, ha commentato Marco Marcatili, Responsabile Sviluppo Nomisma.

Come sostenere il Superbonus 110%

Oltre all’Osservatorio, Nomisma ha stilato alcune proposte che potrebbero rendere la misura più funzionale ed efficace. Ad esempio, “Ricorrere a un’operazione sblocca contratti, in attesa della conferma di proroga della misura al 2023, alla quale dovrebbe aggiungersi la certezza sulla cessione del credito” o ancora “Ridurre le distorsioni di mercato, introducendo una sorta di ‘controlla prezzi’ per attenuare il rischio di schizofrenia che sta minando il mercato delle materie prime. Avvalendosi di aliquote differenziate in base ai condomìni coinvolti, inoltre, anche i contesti più ‘difficili’ potrebbero usufruire dell’incentivo”. Ma potrebbe essere utile anche “Adottare più lungimiranza nella programmazione della misura, cominciando già da oggi a progettare lo scenario post 2023”. 

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Economia

Ambiente e sostenibilità: italiani tra buoni propositi e azioni limitate

La salvaguardia del pianeta è un tema sempre più centrale, e nessun brand può permettersi di ignorare questa tendenza. Questo perché una persona su cinque a livello internazionale ha smesso di acquistare determinati prodotti o servizi a causa del loro impatto negativo sull’ambiente o sulla società. In occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente del 5 giugno GfK ha condiviso alcuni risultati della ricerca internazionale #WhoCaresWhoDoes sulla sostenibilità e le preoccupazioni ambientali, primo fra tutti, la crescita del segmento dei consumatori Eco Active. Ovvero coloro che si sentono responsabili in prima persona per l’ambiente e stanno modificando i propri comportamenti di acquisto.

In forte crescita i consumatori Eco Active

Secondo i dati GfK nel 2020 è cresciuto il segmento dei consumatori Eco Active, che a livello europeo arriva a pesare il 24% e in Germania il 38%. In Italia, questi consumatori sono il 23% del totale. Si tratta di un target abbastanza senior, che gode di maggiori disponibilità economiche, mentre le fasce di popolazione più giovane, che in teoria dovrebbero essere protagoniste del cambiamento, pur avendo una sensibilità elevata per l’ambiente hanno in media meno risorse da impiegare. Inoltre, a causa le preoccupazioni legate al futuro tipiche dell’età finiscono per non cambiare i propri comportamenti, privilegiando servizi e comodità. Secondo le previsioni di GfK, entro il 2025 i consumatori Eco Active a livello mondiale arriveranno a pesare il 40% del totale. Una motivazione in più per le aziende per prepararsi per tempo con investimenti e iniziative di comunicazione mirate.

La distanza tra intenzioni e azioni

Secondo i dati GfK, il gap da colmare tra intenzioni e azioni è ancora ampio. Ad esempio, a livello internazionale il 66% delle persone dichiara di avere intenzione di acquistare prodotti con un packaging sostenibile, ma solo il 20% dei consumatori Eco Active mette in campo azioni quotidiane per ridurre il consumo di imballaggi in plastica. Inoltre, il 72% degli shopper tende ad attribuire una responsabilità maggiore agli altri rispetto che a sé stessi per quanto riguarda le tematiche ambientali. In particolare, secondo gli italiani sono soprattutto i produttori di beni e servizi (37%) e i governi (28%) a poter fare la differenza nella riduzione dell’impatto ambientale. Percentuali simili si rilevano anche considerando il target degli Eco Active italiani, per il quale solo il 26% pensa che la responsabilità sia principalmente dei consumatori.

Più attenti a parole che negli acquisti

Questo spostamento della responsabilità fa sì che nella pratica anche i soggetti che a parole si dichiarano più attenti alle tematiche ambientali facciano poi scelte di acquisto poco coerenti dal punto di vista della sostenibilità. Secondo l’indagine GfK la percentuale di chi effettua acquisti online, quindi potenzialmente più inquinanti, è maggiore tra gli Eco Active rispetto alla media della popolazione. Il consumo di acqua in bottiglia da parte degli Eco Active, ad esempio, è simile a quello del resto della popolazione, e l’acquisto di frutta e verdura confezionata è più alto della media.

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Pandemia e mercato del lavoro tra crisi e mutamenti

La Pandemia ha cambiato il mondo del lavoro, il modo di concepire l’idea stessa di lavoro, i rapporti tra colleghi e con i dipendenti, nonché il modo di cercare nuove opportunità lavorative o selezionare nuove figure professionali. Se il Covid da un lato ha scosso l’intero sistema economico, provocando una crisi profonda all’intero sistema, dall’altro ha dato l’opportunità di rivedere alcuni paradigmi che rischiavano di paralizzare il mondo del lavoro. Oltre ad avere accelerato il processo di digitalizzazione in ogni ambito, imprimendo una spinta al lavoro da remoto ha responsabilizzato l’attività dei dipendenti.

Le soft skills fanno la differenza
Ma in un contesto in continuo mutamento a fare la differenza nella scelta delle migliori figure professionali da inserire nel proprio team sono le soft skills, soprattutto se avvalorate da lettere di referenze da parte di ex colleghi o datori di lavoro. Viene meno poi il concetto di ufficio e scrivania, si lavora per obiettivi da qualsiasi parte del mondo, abbattendo i confini geografici e dando maggior valore alle competenze di ognuno. Il mondo del lavoro appare, dunque, sempre più globalizzato, per questo il vero capitale del futuro sarà rappresentato dalla reputazione.

La reputazione aziendale diviene un criterio di finanziamento

Oggi per le aziende lavorare sulla propria reputazione e guardare oltre il profitto diventa essenza stessa del profitto, “perché uno dei principali criteri con i quali si finanzieranno le imprese sarà quello reputazionale – sostiene Davide Ippolito, Ceo di Zwan, agenzia di reputation marketing e cofondatore di Reputation Rating -. Per gli imprenditori, però, è importante capire che la reputazione non è solo ciò che viene scritto sui social o nelle recensioni, ma si tratta di un parametro complesso, composto da asset interni ed esterni molto diversi tra loro”.

Cambia l’impostazione della ricerca del personale

 “Con la pandemia è cambiato non solo il modo di lavorare, ma anche l’impostazione della ricerca, e soprattutto i settori e le aziende privilegiate”, commenta Fernando Angulo, Responsabile della comunicazione di Semrush, piattaforma di Saas per la gestione della visibilità online.
“In periodi di crisi, la scelta migliore è quella di investire su sé stessi e acquisire nuove competenze, che possano rappresentare un vantaggio competitivo. In questo modo, a differenza di quanto si creda, è possibile reinventarsi a qualsiasi età, cambiando completamente lavoro – aggiunge Roberto Castaldo, Presidente e fondatore del Centro Studio Performance di 4 MAN Consulting -. È importante, quindi puntare a implementare la performance management, il coaching e lo sviluppo di competenze relazionali”. 

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Economia

Stop alla vendita di auto a motore termico

Più di tre quarti degli abitanti di Roma e Milano e oltre il 70% dei cittadini di Barcellona e Madrid si dice favorevole alla messa al bando di nuove auto diesel o benzina dopo il 2030. Stop alla vendita di auto a motore termico anche per il 63% degli abitanti delle principali città europee, secondo i quali dopo il 2030 dovrebbe essere consentita solo la vendita di auto a emissioni zero. Si tratta di alcune indicazioni emerse da un maxisondaggio YouGov, commissionato dalla federazione europea Transport & Environment (T&E). Un’indagine imponente e unica nel suo genere, che ha coinvolto oltre 10.000 persone in alcuni dei maggiori centri urbani europei di otto Stati, Belgio, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito.

A Roma e Milano il sostegno più convinto allo stop

A livello europeo, il dato medio di chi è favorevole alla messa al bando delle auto a motore a scoppio è del 63%, ma in tutti centri urbani i favorevoli superano comunque la maggioranza assoluta degli intervistati. Il tasso più alto spetta ai romani (77%), mentre tra i milanesi è del 73%. Il capoluogo lombardo è al terzo posto dietro Barcellona, che ha fatto registrare un tasso di favorevoli al bando delle auto a motore termico pari al 74%. Per far decollare il mercato dell’auto elettrica è però necessario lo sviluppo di una capillare rete di infrastrutture di ricarica. Di questo ne è consapevole il 61% dei romani e il 62% dei milanesi.

Il prezzo delle auto “pulite” è ancora troppo alto

Altrettanto chiara è la necessità che i prezzi delle auto “pulite” siano analoghi a quelli delle auto tradizionali, un fattore indispensabile per lo sviluppo del mercato delle auto a emissione zero, indicato dal 61% degli automobilisti di Roma e dal 56% di quelli di Milano. Secondo T&E una prima risposta concreta alle aspettative dei cittadini europei potrebbe arrivare a giugno prossimo. La Commissione europea, quando proporrà di inasprire i limiti di emissioni CO2 delle auto, potrebbe infatti fissare una data dopo la quale sarà vietato commercializzare auto diesel o benzina.

La messa al bando dei motori tradizionali è una delle opzioni che i legislatori Ue hanno sul tavolo per centrare l’obiettivo di rendere l’Europa il primo continente climate-neutral entro il 2050.

Dieci governi europei hanno già detto stop a livello nazionale

“I decisori politici – commenta Veronica Aneris, direttrice per l’Italia di T&E – dovrebbero ascoltare i cittadini che si dicono pronti alla transizione completa verso veicoli a zero emissioni già nel 2030. Confidiamo che la Commissione la prossima estate effettivamente proponga una data finale valida in tutta l’Ue per la vendita di automobili con motori a combustione interna”.

Dieci governi europei, riporta Askanews,  hanno già adottato questa misura a livello nazionale, ma rimangono dubbi sulla legalità di procedere in tal senso, senza aver stabilito un percorso graduale condiviso a livello comunitario.

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Aumentano i Neet, e il mercato del lavoro è congelato

Nel IV trimestre 2020 in Lombardia diminuisce il tasso di occupazione (66,9%) che nell’ultimo anno perde 1,6 punti percentuali, più della media nazionale. A diminuire però è anche il tasso di disoccupazione, che si attesta al 5,3%, mentre nel 2019 era al 6%. Nel 2020 poi si registrano 100 mila cessazioni di contratti a tempo indeterminato in meno rispetto all’anno precedente. Questi i dati del report sul mercato del lavoro in Lombardia nel IV trimestre 2020 di Unioncamere Lombardia. Dati che devono essere letti alla luce delle politiche messe in campo dal governo per la tenuta sociale del Paese e per contrastare la pandemia, e che ci restituiscono l’istantanea di un mercato del lavoro “congelato”. Se il divieto di licenziamento e 1,1 miliardi di ore di cassa integrazione hanno evitato un’emorragia occupazionale, un giovane su 6 è un Neet, ovvero, non studia né lavora.

Negli ultimi mesi del 2020 quasi 90 mila occupati in meno

Gli ultimi mesi del 2020 confermano il calo della base di riferimento per l’occupazione lombarda già evidenziato nel secondo e terzo trimestre: il numero di occupati è inferiore del -2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (pari a quasi 90 mila occupati in meno), con una variazione media per il 2020 del -1,7%. La diminuzione del tasso di occupazione, sceso al 66,9%, è più marcata rispetto alla media nazionale, a dimostrazione dei maggiori effetti negativi che la pandemia ha avuto sul mercato del lavoro lombardo.

Meno disoccupati, ma non è un dato positivo

La disoccupazione in Lombardia ha mostrato un significativo calo rispetto ai livelli del 2019 e al trimestre precedente. Tuttavia, l’andamento anomalo rappresenta una probabile spia della difficoltà di cercare un’occupazione, soprattutto nei periodi di restrizioni alla mobilità e a molte attività economiche, piuttosto che un indicatore di buona salute del mercato del lavoro. Il calo del tasso di attività (70,7%) conferma infatti l’allontanamento dal mercato del lavoro di una consistente quota della popolazione lombarda, quasi 130.000 unità in meno rispetto allo stesso trimestre 2019.

I Neet sono il 17,4% dei giovani tra i 15 e i 29 anni

Si tratta di una situazione artificiosamente cristallizzata, a cui fa da contraltare la preoccupante crescita dei Neet, che rappresentano il 17,4% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, con una penalizzazione dei lavoratori con titoli di studio meno elevati e diminuzione dei contratti a tempo determinato e a tempo parziale.

“Il tasso di occupazione in Lombardia è calato di più rispetto alla media italiana e l’apparente minore disoccupazione nasconde purtroppo una crescente difficoltà nella ricerca di lavoro, con uno scoraggiamento nelle fasce più deboli – commenta Gian Domenico Auricchio, Presidente di Unioncamere Lombardia –. Le conseguenze della pandemia sono state particolarmente pesanti per giovani, lavoratori poco qualificati e contratti a termine/part-time, ed è inoltre diminuita la partecipazione femminile”.